Mentre guardo fuori dalla finestra nuvole grigie che si addensano sul cielo di questa estate che stenta a decollare, i miei occhi vengono rapiti da un’immagine che forse distrattamente avevo soltanto guardato di fretta: un cielo come questo e delle foglie arrossate d’autunno che volano intorno, ed è silenzio. Come in uno strano gioco di similitudini mi trovo a ripensare alle pagine che ho appena letto, o meglio, che ho vissuto, respirato, e delle quali mi sono bagnato, come della pioggia leggera che adesso scende sui vetri, rincorrendo il proprio destino. Sto parlando del romanzo “Nessuno sa di noi” di Simona Sparaco (Giunti Editore). Potrà sembrare esagerato, oltre le linee di una classica recensione d’autore, ma quando, come in questo caso, è più l’urgenza emozionale che la mente a guidare le mani sulla tastiera, è proprio in quel momento che si compie il miracolo: ciò che ho letto fa parte di me, e per sempre. Un argomento che definire scabroso, scomodo, troppo intimo per essere condiviso, sarebbe poco; un tempo, un luogo, un quando e un dove che nella semplicità costruita con sapienza dalla narratrice, appaiono normali, noti e comuni. Ma allora perché tutto questo trambusto? Perché 252 pagine sembrano essersi appropriate di tante testate giornalistiche, incontri di approfondimento culturale, e premi altisonanti quali lo Strega? Ebbene, credo sia perché il corollario di parole, pause, antefatti e riflessioni psicologiche, siano arrivate nel cuore dei lettori prima di diventare un caso letterario del quale parlare, e sul quale spendere molte più parole di quelle che compongono questo spaccato di vita dalla copertina autunnale. Una donna e il suo dramma, ma di questo se ne è parlato molto, occupano lo spazio breve e intenso di un respiro, restituendo al lettore l’ossigeno vitale di un’esperienza con la quale ognuno di noi, almeno una volta nella vita si è trovato a fare i conti, più per dire la sua che per vissuto personale. In questo romanzo si parla di aborto, sì proprio di aborto. Lo ripeto a voi come a me stesso per spogliare il termine di quel fardello moralista e spesso falsamente celato dietro espressioni compassionevoli o accusatorie, secondo il caso, il momento o l’interlocutore. E’ un’esperienza che fa paura quella raccontata dall’autrice, una “terapia” che impone la morte, l’estirpazione di un essere da noi, dal nostro corpo, come si fa con un tumore, sulla quale stendere un silenzio che taglia, fatto di colpa e fuori legge. Ma le urla di Luce, la protagonista, sono quelle peggiori, sono suoni profondi e dilanianti, quelli che lasciano traccia tanto sugli altri quanto in sé stessa. Una famiglia comune, il prodotto dei nostri tempi affrettati, la voglia di avere un figlio che si trasforma come in un incubo nella necessità di tornare indietro, di riavvolgere il nastro per riportarlo al punto di partenza. Semmai l’impianto narrativo fosse sembrato poco articolato, in questo romanzo si delineano in modo assolutamente pertinente e sagace le differenze tra i generi della procreazione di fronte a un tema così spinoso. L’uomo e la donna non sono più il seme e la terra, l’idea e la realizzazione, ma la voce e le labbra, il respiro e il cuore, che nasconde tra i suoi battiti il ritmo di un’esistenza. C’è un lui consapevole e razionale e una lei come tante, pronta a tutto perché appoggiata al muro di certezze e speranze che lui le offre, ma dal quale lei non tarda a fuggire una volta messa a confronto con la sua vita impossibile e con i vagiti uccisi prima che fossero parole. La nostra cultura cristiana dilagante fatica a ricomporsi in quello stretto vestito di dogmi, una volta che l’ultima frase di questo romanzo è passata dagli occhi per diventare esperienza da raccontare. La verità? “La verità è che non posso e non potrò mai comprendere che cosa ci è successo. E che da questo momento in poi, mi sarà solo concesso di guardare indietro”. Così Simona Sparaco descrive uno stato d’animo struggente quanto nascosto. Quello di una protagonista che conosce i propri limiti, quello che la lascia sveglia, la notte, alla ricerca di una madre che appare più una figlia che altro, alla quale lei non riesce a riconsegnare la paura e la voglia di averla accanto. E’ incredibile; una storia intessuta di un qualcuno che non è mai stato né mai sarà, la causa del cambiamento al quale la coppia si adegua seppur strenuamente avvinghiata agli orpelli a consumo di una cameretta che profuma di nuovo e vestitini che non conterranno mai nessuno. Raccontare la trama di questo romanzo sarebbe come offendere le emozioni che genera, le riflessioni a crudo attraverso le quali ci accompagna l’autrice, con la forza di una fragilità da novizia del mondo oscuro della non vita “terapeutica”. Come un bicchiere di cristallo cade in pezzi e taglia più di una lama, così Simona Sparaco irrompe tra le cellule del non detto per instillarvi il coraggio di una scelta, come solo una donna sa fare, senza rumore, fondendo schegge di rammarico nel crogiuolo della coscienza per farne vita, mai una scusa per esistere, ma una ragione per continuare a credere nella sua infinita ed eterna bellezza.
Sandro Capodiferro
Recensione a “Splendore" di Margaret Mazzantini
C’è qualcosa che ricorda il mare in alcuni romanzi, tracce di salsedine sugli stipiti di una cabina in inverno, sabbia stesa al sole gelido dopo la nuova mareggiata. Un po’ come accade nella vita: onde che si alternano incessanti sulla battigia del nostro cuore, lasciando impronte, e voci e luce. Una copertina così eterea e cromatica sa di carta-regalo, mi sono detto guardando il romanzo del quale sto per parlarvi, in libreria, dove le numerose copie hanno regalato a quell’ambiente una nota di colore degna di un vernissage d’arte più che di una promozione letteraria. Splendore di Margaret Mazzantini (Mondadori Editore) non è una semplice storia, il resoconto di un viaggio di vita, bensì è viaggio e vita che intrecciano le loro spire sui protagonisti di questo scrigno incantato, denso di sensazioni e consapevole alternanza di emozioni. Non starò qui a elogiare le doti narrative di questa scrittrice che già da tempo ci ha abituato ad uno stile emozionale, pensato ma libero da qualsiasi scuola di omologante scrittura creativa; ma l’impianto scenico nel quale i personaggi si muovono è quello più arduo e scomodo di un amore diverso, in un tempo e in luoghi nei quali questo tema sembra voler finalmente urlare tutta la sua dignità di esistere. Guido e Costantino due “animali” che vivono il loro tempo all’interno del recinto del condominio nel quale il primo vive la sua vita di media borghesia e l’altro quella di figlio del portiere. Fin dall’inizio del romanzo le differenze tra i due vengono sottolineate proprio da simboli estetico/logistici: uno vive in alto, l’altro in basso, uno è gracile, raffinato e ciarliero, l’altro è corpulento, introverso e defilato. Scorrendo le pagine si riescono a percepire i toni delle loro voci, il profumo dei loro corpi, l’urgenza fisica e psicologica che li spinge uno fra le braccia dell’altro, come fossero reciprocamente l’ultima spiaggia libera nella quale potersi esprimere in tutta la loro fame di vita. Trecento pagine e una vita intera da raccontare, anzi due: un arduo compito perfettamente riuscito. Si è talmente sovrastati dai colori, dai suoni, dalle certezze e dalle titubanze di questo amore, da percepire le ambientazioni come fossero soltanto un contorno dovuto ma assolutamente poco influente, sebbene descritte minuziosamente nelle loro più intrinseche peculiarità. Ed ecco che Roma e Londra diventano uno spartito musicale, dove note a tratti acute e poi gravi si rincorrono sul pentagramma della lontananza, suonando melodie intime e nascoste come un ritornello cantato nell’anima, davanti allo specchio delle proprie consuetudini. Due esistenze che per tutta la vita si affacciano l’una sull’altra rincorrendosi in cerchi concentrici di desiderio contenuto, e esplicito solo tra le lenzuola sotto le quali nascondere una “vergogna” atavica. “Ogni uomo è se stesso solo nel momento in cui smette di ragionare” è così che pensa Guido mentre si accinge a prendere un aereo per Roma, a ripercorrere quella staffetta a volte faticosa verso una meta fatta di riserbo e poche parole, ma anche di pelle e spalle forti sulle quali perdersi per ritrovarsi. E’ questa incertezza di fondo, questo dire il non detto, questo gelo espressivo, a raccontare l’indicibile bisogno di due persone che pur di soddisfarlo si promettono molto più di quanto mantengono, tacciono molto più di quanto dicono e sognano molto meno di quanto vorrebbero fosse possibile. I due protagonisti, come legnetti abrasi dal mare della loro passione a volte inappagante, si lasciano trasportare dalle correnti della vita come tutto il resto dell’umanità sparsa tra i flutti. Entrambi si sposano, entrambi hanno dei figli (in uno dei casi adottivo, nell’altro ritardato) e i comprimari di questa vita da puzzle mai ricomposto, diventano forse una catarsi attraverso la quale “punirsi” e donare un candore alle loro instabili inadeguatezze mai risolte. Ma come in tutti i romanzi di Margaret Mazzantini anche in questo c’è un evento, un piccolo filo trasparente che cerca di dare una spiegazione al tutto attraverso la sua consistenza di nulla, impalpabile come la sabbia fine che ritorna ricorrente a graffiare le pagine. Ed ecco allora affacciarsi la violenza, il mondo che nonostante i millenni di consumata esperienza ancora combatte tutto ciò che non comprende o forse soltanto ciò che preferisce non comprendere. E di violenze purtroppo ce ne sono di ogni tipo da quella ignorante e muta di un pestaggio che impone a un cane da pecora una maschera da lupo, a quella più subdola e tagliente dell’abuso consumato tra pareti di domestica indifferenza. Nelle parole così ricercate, tra i respiri intensi di due amanti costretti a rifugiarsi, sugli sguardi carichi di un bisogno di espressione intenso, ci sono le pagine di questo romanzo a ricordarci che le migliori sono quelle scritte dall’altra faccia della luna, quella che in silenzio e al buio rende ancora una volta possibile lo Splendore della luce.
Sandro Capodiferro
Altre recensioni Letterarie:
Non Nobis Domine (Cinzia Baldini e Simone Draghetti)
L'orologio parallelo (Cinzia Baldini, Monica Baldacchino, Michele Gentile)
Le primavere di Vesna (Ida Verrei)
Esiste un posto (Alessia Gambino)
Venuto al Mondo (Margaret Mazzantini)
Nessuno sa di noi di Simona Sparaco
Rosso Istanbul (Ferzan Ozpetek)
Il fantasma di Shanghai (Pierluigi Fantin)
Lisario o il piacere infinito delle donne (Antonella Cilento)
Ogni volta che mi avvicino ad un’opera d’arte lo faccio sempre con rispetto, quasi in punta di piedi. L’immagine o l’oggetto che ho davanti in quel momento porta con sé non solo i messaggi tipici della propria funzione comunicativa bensì il lavoro, l’esperienza, i pensieri e le suggestioni dell’artista che ha prodotto quell’opera. Guardandolo attentamente mi vengono in mente le ore trascorse davanti alla tela, i sentimenti che hanno mosso dal fondo dell’anima quel particolare artista, i ripensamenti o gli scetticismi contro i quali il Maestro ha combattuto prima di poter decidere di “andare in scena”.
Premetto: non sono un critico d’arte né un esperto in materia. Mi ritengo semplicemente un uomo sensibile a tutte le forme di comunicazione, in particolare a quelle che attraverso “il bello” e “l’armonioso” trasferiscono sensazioni e spunti di riflessione a chi ne è spettatore.
Ma facciamo un passo indietro. Nel novembre del 2004 ricevetti in regalo per il mio compleanno un quadro, fatto da una persona che all’epoca conoscevo appena e che non immaginavo avesse tali predisposizioni. Fu per me davvero una sorpresa e quello che ne venne dopo è oggi storia. Ancora adesso, guardando quell’opera, mi piace perdermi in quei tratti su tavola e in quelle sfumature così intime e a volte contraddittorie, nelle quali la mia fantasia trova spazi aperti ad ogni interpretazione.
Sto parlando di Pietro Olivieri o, come mi piace definirlo, il Maestro delle Sabbie. Qualche cenno biografico credo a questo punto sia doveroso. Pietro Olivieri nasce a Sorrento nel settembre del 1967, in un luogo quindi dove il mare si unisce alla terra per incontrare il sole e suggerire alle anime più sensibili le ispirazioni migliori per la propria creatività. Si trasferisce a Roma e completa i suoi studi sociologici continuando comunque a lavorare e lasciando quindi poco spazio al suo mondo di espressioni grafiche dal profumo acrilico e pungente. Ogni tanto qualche tela sul cavalletto ma poco tempo per imprimervi tutta la sua voglia di comunicare, finché un’ispirazione più forte della altre gli fa scoprire il vero cammino artistico da intraprendere.
Dedito a collezionare sabbie già da anni, fu proprio durante uno dei suoi numerosi viaggi che Pietro si imbatté in una spiaggia dai colori così vivi che gli fecero pensare a quanto la natura avesse già in quel luogo cosparso tutti i colori più belli che nessuna tavolozza, se non quella, avrebbe mai potuto contenere e quanto la sua forsennata ricerca del colore perfetto fosse in quel momento giunta alla fine.
Tornò a Roma con un sacchetto di sabbia tra le mani e tante idee su come, ma soprattutto in quale ambito pittorico, poter utilizzare quell’elemento così dannatamente bello quanto difficilmente domabile, come una fiera libera e aggressiva che in quel momento si concedeva docile alle sue intuizioni artistiche.
Passò del tempo prima che la tecnica si raffinasse in un qualcosa di canonizzato in tempi, gesti, e modalità di attuazione che non fossero poi soltanto il risultato di un caso fortuito, finché il primo quadro in sabbia venne realizzato, diventando l’inatteso dono del quale vi parlavo.
Il titolo dell’opera è “L’Equilibrista” e la rappresentazione credo necessiti di non molte parole. E’ l’immagine di un uomo in equilibrio sul mondo e su tutte le sfaccettature della vita sulle quali ognuno di noi è avvezzo a camminare. Le sabbie con le quali è realizzato rimandano a luoghi lontani carichi di storia e ispirazioni emozionali. Maldive, Australia, Senegal, Egitto, sono solo alcune delle spiagge dalle quali provengono i pigmenti cromatici e la denominazione di “Tavolozza intercontinentale” data ai materiali da parte del Maestro e critico d’arte Nico Parziale ne descrive al massimo la sostanza, in un sunto di terminologia ineguagliabile. Ma la necessità di sintesi estetica di Pietro Olivieri non si limita a questo. Nelle sue opere, in particolare quelle astratte, ci si può perdere facilmente nei meandri del “non evidente” alla base del suo stile di comunicazione. L’artista infatti ama disseminare il campo prolifico delle sue tavole grafiche di simboli e richiami ai quali non si può non dedicare attenzione, attratti come si è all’interno del quadro, proprio per guardare ed entrare così a farne parte. Questo particolare canone comunicativo è valso la creazione di un appellativo che ne descrivesse il significato. Stiamo parlando del “Sablogramma”, un particolare stile creativo dove i significati apparentemente inespressi trovano ampia spiegazione in un simbolismo sintetico davvero eccezionale. La conoscenza di importanti esponenti del mondo artistico e la sua voglia di condividere rendendo evidente l’urgenza artistica dell’uomo, hanno dato a Pietro Olivieri il la per la creazione di un nuovo movimento artistico che ha preso il nome di En-Sablismo, il manifesto del quale è stato pubblicato sul periodico di settore “Il Giornale dell’Arte” nel dicembre del 2010. Un breve estratto dello stesso a descrizione del simbolo utilizzato per il Movimento recita:
“(…) L’entità uomo, perfettamente integrata nelle dinamiche geometrie naturali, si identifica dal contesto esclusivamente per la forma delle mani e della testa, quali unici elementi, distintivi anche in natura, che regalano alla stessa il privilegio di una ragionata manipolazione attuativa”.
Un ricercato modo di espressione profondamente legato al proprio mondo naturale. Ancora dal Manifesto leggiamo: “(…)La natura risulta in questo modo alla base di quanto viene proposto ma mai asservita a semplice materialismo opportunistico, mai spettatrice delle evoluzioni intimistiche di un uomo bensì attrice principale della medesima sua rappresentazione”.
Molte sono ad oggi le opere realizzate da Piero Olivieri e molti i premi ricevuti in occasione delle numerose mostre e concorsi ai quali ha partecipato. Il risultato è facilmente consultabile al sito www.pietroolivieri.com nel quale potrete trovare tutte le informazioni e le curiosità su questo particolare artista che, alleandosi alla natura e coniugando i dogmi della tecnica, ha fatto delle sue tavole un’occasione di complice incontro tra arte ed espressione degli elementi naturali su di un palcoscenico di vita e sensazioni davvero degne di nota.
Sandro Capodiferro
Il Cardinale Mia Cara di Fabio Croce
Un teatro dall'architettura insolita nella parte più colorata della movida romana, una commedia che fa parlare di sé in particolare per la difficoltà oggettiva di affrontare certi argomenti, un autore Fabio Croce che non pone limiti edulcoranti al verbo efficace, a tratti severo e "scandalosamente" schietto, quattro attori che si compenetrano nei personaggi come il respiro fa col battito di un cuore, questi gli ingredienti per una serata che si preannunciava interessante fin dall'inizio ma che non credevo potesse catturare l'attenzione in modo così forte e sentito durante la messa in scena della commedia "Il cardinal mia cara" (regia di Paolo Orlandelli) qualche sera fa al Teatro Di Documenti nel quartiere storico di Testaccio.
Una storia giocata sul filo della più sottile ipocrisia vaticana dove, nelle stanze segrete del “non detto” si intrecciano le vite per certi versi torbide di due uomini inchiodati alla loro croce d'amore, pesante da portare quanto la segretezza buia e profonda alla quale questo amore e' condannato.
Un cardinale consapevolmente tagliente nelle espressioni e caustico nella disillusione che mostra attraverso i suoi discorsi vezzosamente posti al femminile, traccia il percorso amaro dell'essere diversi in un ambiente dove tutto e' solo pretesto per non dirompere in evoluzionismi umani e liberazioni sessuali dei quali invece per amor di dottrina sapientemente tacere.
Le risposte dell'alto prelato affondano come una lama nei dubbi del suo ingenuo assistente che cerca in ogni modo una razionalità alle spiegazioni dogmatiche e per questo così lontane dal suo sentire.
Gli interpreti di questa commedia tanto sagace quanto finemente dipinta con le parole di chi sa trattare materie incandescenti come lava, si alternano tra momenti di duro realismo e voli pindarici dai riflessi colorati di un caleidoscopio di emozioni vissute fino all'epilogo, urlato sulla scena, struggente come la lacerazione di una placenta primaria che dona come ultimo gesto l'unico rifugio possibile.
Un plauso va agli attori tutti (Alberto Alemanno, Achille Brugnini, Adriano Evangelisti, Michele Cesari) per la naturalezza con la quale sono stati artefici di uno spettacolo nello spettacolo, per il loro timbro penetrante e le loro interpretazioni perfettamente integrate nello spazio scenico, così toccanti e commoventi quanto salaci e impertinenti, di scena in scena e al buio del rimorso come sipario.
Sandro Capodiferro